Dal Sannio a Gaeta. Un sannita nel tramonto di un’epoca

Dedicato a tutti coloro che, servendo lealmente una causa o restando fedeli ad un Giuramento, divennero, poi, i migliori Cittadini del nuovo Stato Unitario, l’Italia, risorta dalle sue rovine dopo quattordici secoli di divisione e di servaggio

Testo del Gen. Antonio Zerrillo*

1 - Capua_16_Btg_Cacciatori, gaeta

14 febbraio 1861.

Le sette del mattino.

Un alba livida: l’orizzonte è ancora buio.

Fa freddo. Tanto freddo.

Poche, appena percettibili, le luci della fortezza.

Giovanni, sporco, lacero, con la stanchezza che lo attanaglia e gli fa cascare le palpebre, è accanto agli altri. Cerca di rassettarsi l’uniforme.

Stringe  il fucile, con la baionetta già inastata.

Guarda la “Porta di Mare”, poi volge lo sguardo verso la fortezza.

Sono in tanti, non solo militari.

Il Comandante, la sciabola sguainata, in fondo allo schieramento, sembra attendere un segnale.

In porto, si ode il fischio di un piroscafo: batte la bandiera francese.

Qualcuno parla, sottovoce. Brusio anche tra i suoi commilitoni.

Poi, come per un misterioso segnale, silenzio.

Fermi, al loro posto, anche gli uomini della banda.

Si sente solamente il leggero rumore del vento, che ancora accarezza la bandiera, lassù, in alto.

Gravida, palpitante attesa.

3 - Litografia_ballagny,_fine_XIX_sec._francesco_II_di_napoli

Poi, d’improvviso, il Comandante esce e si porta avanti, si dirige verso la casamatta.

Sta per impartire un ordine: lo sa, Giovanni, quale ordine e sa anche perché.

E, soprattutto, per Chi.

Lo sanno i suoi commilitoni e tutti coloro che, in quella piovigginosa e fredda mattina di febbraio, sono lì, davanti alla Porta di Mare.

Il Comandante alza la sciabola.

Giovanni ne intravede appena lo scintillio nell’oscurità…

Certo, c’era voluta una bella sfortuna.

Lavorava la terra, tra le groppe dell’Alto Sannio, Giovanni.

Ne ricavava assai poco, per sé e per la sua famiglia: ma gli bastava. Nonostante tutto, era contento: corteggiava , da qualche tempo, la figlia dei vicini di casa e, prima o poi, si sarebbe dichiarato alla sua famiglia.

E, poi, aveva parlato col fabbro-maniscalco del paese: non aveva figli e cercava un aiutante. Sempre meglio che spaccarsi la schiena sulla terra.

Certo, c’era voluta una bella sfortuna…

Nel Regno delle Due Sicilie, esisteva la coscrizione obbligatoria.

La legge del 28 febbraio 1823, prevedeva che tutti i maschi, tra i 18 ed i 25 anni, vi fossero interessati.

Ogni anno, al portone del Municipio, ne veniva affisso l’elenco: chi non sapeva leggere, ne chiedeva notizia a chi, invece, aveva qualche rudimento d’istruzione, oppure, dopo l’esposizione di quel foglio, con lo Stemma del Regno, col Giglio dei Borbone al centro, i giovani entravano in Comune per chiedere se, tra quelli trascritti, vi fosse anche il loro nome.

Poi, in udienza pubblica, davanti al Decurionato- il Consiglio Comunale dell’epoca- si procedeva all’estrazione a sorte,

imbussolando i nomi dei ragazzi elencati e compresi nelle età previste.

La chiamata, in linea di massima, avveniva per un coscritto ogni mille abitanti.

Insomma, pensava Giovanni, proprio a me deve toccare ?

E toccò proprio a lui.

Appena proclamato il suo nome, restò in silenzio, poi si avviò verso casa, in disperato silenzio.

La ferma di leva durava 6 anni.

C’era, in effetti, la possibilità di essere sostituiti, a pagamento: ma dove li avrebbe trovati i soldi per farsi sostituire ?  E da chi ?

Due giorni dopo, mentre rientrava dalla campagna, affranto, incontrò uno dei Decurioni, i Consiglieri Comunale del tempo.

“Non disperare”- gli disse ” non è ancora tutto deciso. Il tuo nome, adesso, sarà segnalato al Consiglio di Leva della Provincia di Molise, a Campobasso e, poi, la decisione finale spetterà alla Commissione di Leva di Napoli. Non è affatto detto che abbiano proprio bisogno di te”.

Invece, a Campobasso e a Napoli decisero che ne avrebbero avuto bisogno.

Lo chiamarono e lo inviarono a Caserta, per il periodo di istruzione, che sarebbe durato cinque o sei mesi.

Erano tempi strani.

Qualche anno prima, un suo compaesano, più vecchio di lui, era stato arruolato e spedito, nel 1849, a combattere, contro gli Austriaci, nella pianura Padana, col Generale Guglielmo Pepe.

Era tornato ferito ad una spalla.                          —

Dopo l’addestramento iniziale, Giovanni venne assegnato alla 7^ Brigata dell’Esercito e- era il giugno del 1859- all’appena costituito 14° reggimento di fanteria “ Sannio ”.

Erano tempi strani, quelli. Qualcuno parlava, in caserma, delle bellicose intenzioni del Re di Sardegna, Vittorio Emanuele, che già stava scontrandosi, con l’aiuto dei Francesi, con l’Austria, per estendere il suo regno a tutta l’Italia settentrionale.

“Lasciatelo fare, il Re di Sardegna”, diceva il suo Capitano “ prima o poi si buscherà, lui ed il suo amico Napoleone III, una bella lezione da Radetzky. Io ci ho avuto a che fare, con gli Austriaci, sul Po, nel 1848-49: è e gente che non scherza, ve lo assicuro. E poi, comunque, i piemontesi non oseranno mai mettere  i piedi da noi. Siamo difesi ovunque dall’acqua: per tre quarti dal mare e, per un quarto, dall’acqua santa”.

Il Capitano aveva ripreso le parole del Re, Ferdinando II, che riteneva che le sue frontiere fossero tutelate dal mare e dagli Stati del Papa, l’”Acqua Santa”, per l’appunto.

Ferdinando, quasi improvvisamente, dopo una breve malattia, 

era morto, a Caserta, pochi giorni prima che lui giungesse al neo-costituito reggimento , che portava il nome della sua Terra.

Al trono era salito il figlio, Francesco II, un ragazzo di appena 23 anni, con una bella e giovane moglie tedesca, Sofia di Baviera, appena diciottenne.

Il giovane Sovrano muoveva i suoi incerti passi a Corte ed al Governo, attorniato da consiglieri che ne fiutavano l’imminente fine.

Questo Giovanni, non poteva saperlo: ma, almeno alcuni degli uomini che formavano la guida politica del Regno, stavano già pensando al “dopo”.

Le Due Sicilie, secondo loro, erano spacciate e il giovane, inesperto Re faticava a districarsi tra coloro dei quali poteva fidarsi e quelli che, invece, stavano già preparandosi ad abbandonarlo.

Aveva ripristinato la piena vigenza della Costituzione, già     concessa dal padre nel 1849 e mai formalmente abrogata,     anche se, in gran parte, disattesa.

Aveva nominato primo ministro un vecchio oppositore, un piccolo nobile pugliese, Liborio Romano.

Insomma, inesperto- forse- si, ma non malaccorto e non privo di vedute politiche sufficientemente ampie da comprendere  la gravità della situazione.

Grave, il momento, gravissimo.

Stava accadendo l’incredibile.

L’11 maggio del 1860, a Marsala, i Sicilia, erano sbarcati,protetti dalla flotta inglese, un migliaio di uomini, provenienti da Genova, al comando di un certo Giuseppe Garibaldi.

“Garibaldi, Garibaldi…” pensava Giovanni.

Quel nome l’aveva già sentito. Glielo aveva fatto il compaesano che aveva partecipato alla guerra precedente, raccontandogli di quello che, per lui, era uno strano personaggio, proveniente dal Sudamerica, che aveva combattuto, disperatamente, per la difesa di Roma, contro i Pontifici ed i Francesi.

Il compaesano era ben informato sulla figura di questo condottiero: dopo la caduta di Roma, era fuggito verso Venezia, ancora in armi contro gli Austriaci, ma avena dovuto fermarsi nelle paludi di Comacchio, presso il Po, dove gli era morta la moglie.

Al reggimento trapelavano le infauste notizie provenienti dalla Sicilia, ove “ I Mille” avevano sbaragliato le truppe delle Due Sicilie a Calatafimi ed a Milazzo, nonostante che queste fossero condotte da valenti e collaudati comandanti, quali i Generali Francesco Landi e Tommaso Clary.

Dopo Milazzo, Garibaldi era sbarcato in Calabria, a Melito ed aveva proseguito la sua inarrestabile marcia.

Fu allora che il suo reggimento fu rapidamente inviato proprio in Calabria e posto agi ordini del Generale Giuseppe Ghio, per arrestare l’avanzata della camicie rosse.

Giovanni ebbe il “battesimo del fuoco” il 30 agosto 1860, a Soveria Mannelli, nel catanzarese.

Lo schieramento vedeva la netta prevalenza delle forze del Re Borbone.

Ciononostante, dopo i primi scontri, ai quali Giovanni partecipò , nel fragore del crepitare dei fucili dei cannoni, il Generale Ghio decise- fuorviato dalla false informazioni messe in circolazione dai garibaldini, circa l’arrivo di ingentissimi rinforzi in loro favore, decise, incredibilmente, la resa.

Il contingente del quale faceva parte Giovanni era riuscito, però, a sganciarsi prima della fine del combattimento ed aveva risalito la Calabria, rientrando nel Napoletano.

Gli altri, erano finiti prigionieri: alcuni, peraltro, avevano chiesto- ed ottenuto- di unirsi alle truppe dell’Eroe dei Due Mondi, come molti già chiamavano Garibaldi.

Giovanni, dopo un breve periodo nel casertano, partecipò alla battaglia del Volturno, tra il 26 settembre ed il 1° ottobre del 1860.

Ormai era davvero un soldato e glin bruciava- se ne era accorto, eccome!- la condotta dei suoi e, specialmente dei capi- a Soveria, pochi mesi prima.

A Capua, a Caiazzo, a Valle di Maddaloni, non si risparmiò, dimostrando fegato ed impeto.

Fu la vera riscossa ed il vero riscatto dell’Esercito Napoletano.

Ad un certo punto dei combattimenti, il Generale Von Mechel, Comandante della Brigata Estera – era del tutto normale, all’epoca, la presenza di truppe straniere negli eserciti dei diversi Stati- aveva detto a Francesco II: “ Maestà, preparatevi, tra poco vi riporto a Napoli”.

Poi le cose erano andate diversamente: il sopraggiungere delle Forze regolari del Re di Sardegna aveva definitivamente compromesso l’esito della battaglia ed il Re si era rifugiato a Gaeta, nell’antiva fortezza sul mare.

Giovanni lo aveva seguito.

Forse avrebbe potuto anche andarsene, tornarsene a casa: ormai la partita era, con tutta evidenza, perduta.

Ma non volle.

Rimase: era una questione d’onore, adesso.

L’assedio durò da novembre del 1860 al 14 febbraio del 1861.

Furono i mesi peggiori per Giovanni e per i suoi commilitoni.

Sotto il fuoco quotidiano delle artiglierie, gli capitò di rimpiangere, amaramente, di non essersene andato dopo la sconfitta del Volturno.

Nessuno lo avrebbe più cercato. Er evidentemente finita.

Ma, ormai, era lì.

Restò colpito, ammirato ed affascinato dal comportamento dell’impavida Regina Sofia che, dagli spalti della fortezza, pretendeva di contribuire, armi in pugno, alla difesa.

Invano, gli Ufficiali, tentavano di distoglierla dalla sua ferma intenzione.

Mancava il pane, mancava l’acqua.

Si moriva, ogni giorno, ogni momento.

E, se non era per il fuoco avverso, era per le malattie, la mancanza di cura e di medicine, le epidemie…

Poi, il 13 febbraio, in serata, la firma della resa.

Era stato fatto tutto il possibile: l’onore era salvo, ma era la fine del Regno.

La sciabola del Comandante stava ancora fendendo l’aria, quando gridò: “ Onore a Sua Maestà Francesco II, Re delle Due Sicilie”.

La banda, schierata accanto alle truppe, intonò lo struggente, solenne, Inno Nazionale, opera del maestro Giovanni Paisiello.

Francesco, in alta uniforme, con la moglie Sofia, appena usciti dalla casamatta nella quale, in incredibili condizioni, avevano vissuto gli ultimi, tremendi giorni dell’assedio, si diressero verso la Porta di Mare.

Tra le note dell’Inno, molti civile e molte donne si chinarono a baciare le mani del Re e della Regina.

Molti piangevano.

Anche tra i militari.

Incredibilmente, passando davanti a lui, irrigidito nel presentat’arm, la Regina lo fissò con occhi tristi e commossi.

Non appena i Sovrani ebbero superato la Porta di Mare, qualcuno gridò:”Viva il Re!”.

Seguirono altre esclamazioni, fin quando la giovane coppia regale non  si imbarcò sul piroscafo francese “Mouette”, che l’avrebbe condotta a Terracina, in territorio pontificio.

Prima di imbarcarsi , Francesco aveva lasciato un messaggio, che fu letto alle truppe non appena la nave partì.

A tutti stringo la mano con effusione di affetti e riconoscenza. Non vi dico addio, ma arrivederci. Conservatami intatta la vostra lealtà, come vi conserverà eternamente la sua gratitudine e la sua affezione il vostro Re”.

Ancora riecheggiavano, sommesse e solenni, le note dell’Inno di Paisiello.

Sulla guancia di Giovanni- gli occhi della Regina ancora impressi- scese, lentamente, una lacrima.

Le luci dell’alba si insinuarono tra le mura della fortezza.

Le note di Paisiello si persero nell’ria.

Scendeva, fredda, una pioggia sottile.

Dedicato a tutti Coloro che, servendo lealmente una causa o restando fedeli ad un Giuramento, divennero, poi, i migliori Cittadini del nuovo Stato Unitario, l’Italia, risorta dalle sue rovine dopo quattordici secoli di divisione e di servaggio.

  BIBLIOGRAFIA

Gigi DI FIORE: “ I vinti del Risorgimento”,  Ed. UTEt, Torino, 2005;

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Raffaele DE CESARE:”, La fine di un regno”, vol. 2, Città di Castello, Scipione Lapi, 1909.

Chi è il Gen. Antonio Zerrillo*

Antonio Zerrillo

Antonio ZERRILLO è nato nel 1957, vive ad ALBA (CN), è sposato ed ha un figlio.

E’ originario di REINO ( BN), ove si reca di frequente.

Generale di Brigata dell’Esercito, è in congedo dal 2018.

E’ Cittadino Onorario dei Comuni di DIANO D’ALBA (Cuneo) e di VERRUA SAVOIA ( Torino).

Ha svolto studi storici presso l’Università di TORINO, approfondendo, in particolare, il periodo tra il Risorgimento e la Seconda Guerra Mondiale.

Arruolato nel 1977, dopo la nomina a Sottotenente fu assegnato a COMO.

Trasferito  a TORINO nel 1983, ha  prestato servizio presso la Procura Militare della Repubblica, il Comando della Regione Militare Nord Ovest ed il Comando Militare Esercito Piemonte.

Tra i principali incarichi ricoperti figurano quelli di Comandante di Compagnia, Responsabile della Segreteria del Procuratore Militare, Comandante di Reparto a livello di battaglione, Capo Ufficio Affari Generali e Capo Ufficio Comunicazione dello Stato Maggiore della Regione Militare Nord.

Dal 2014 al 2018, in esecuzione delle direttive al riguardo impartite dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, è stato a capo del progetto per le Commemorazioni del Centenario della Grande Guerra in Piemonte.

E’ stato membro delle Conferenze Permanenti per le Commemorazioni   presso le Prefetture di TORINO, CUNEO, ASTI e BIELLA.

In tale veste ha pianificato, organizzato e realizzato, in collaborazione  con le Prefetture, le Provincie, le Dirigenze Scolastiche, le Associazioni d’Arma e molte Amministrazioni Comunali, una lunga serie di attività in tutto il Piemonte, che hanno riscosso grande partecipazione ed hanno avuto notevole riscontro sugli Organi di informazione.

In diverse occasioni, a TORINO ed in molte località del PIEMONTE, è stato relatore su argomenti relativi alla Prima Guerra Mondiale.

In concomitanza con il Centenario della conclusione del conflitto, nel corso del 2018, anche dopo aver lasciato il servizio attivo, ha continuato a collaborare all’ organizzazione dei relativi eventi in Piemonte ed anche in località della Lombardia e della Toscana.

In particolare, inoltre, presso il Comune d’origine, nell’Alto Sannio, ha contribuito fattivamente ad organizzare un’ articolata serie di eventi, sviluppatisi tra maggio e novembre del 2018, relativi alle celebrazioni del Centenario suddetto, che hanno riscosso grande attenzione mediatica a livello regionale e non solo.

Svolge attività di docenza, presso l’Università Tecnologica della Terza Età, in TORINO e presso l’Università della Terza Età di ALBA (CN) e di altre località della Provincia di CUNEO, su argomenti di carattere storico.

Sempre presso il paese sannita d’origine, ha recentemente promosso ed organizzato, anche qui con notevole ritorno d’immagine,  il conferimento della Cittadinanza Onoraria al Generale Massimo IADANZA – originario del posto – già Vice Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri.

Collabora, con scritti ed interventi, con il Centro Studi “Giovanni Giolitti” di CAVOUR (TO), diretto dallo storico di fama nazionale Aldo A. MOLA e con il Centro Studi e Ricerche “Nord Ovest” di IVREA (TO).

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