Le donne italiane nella Grande Guerra

Tante le Donne, Europee, Italiane ed anche Sannite, che scesero nella Trincea del “Fronte Interno” e combatterono la grande battaglia per rivedere, un giorno, il risorgere del sole della vita.

(La Voce del Sannio – Contributo del Gen. Antonio Zerrillo*) – Centocinquanta anni orsono, i Trattati di pace di Versailles disegnavano la nuova Europa, scaturita dal grande carnaio della Prima Guerra Mondiale.

Se è vero che i Combattenti erano Uomini, non bisogna scordare che il mondo andò comunque avanti, nonostante tutto, grazie alla Donne. Alle tante Donne, Europee, Italiane ed anche Sannite, che scesero nella Trincea del “Fronte Interno” e combatterono la grande battaglia per rivedere, un giorno, il risorgere del sole della vita.

Proprio nel nostro Sannio, a Reino, tra le Valli del Tammaro e del Fortore, lo scorso anno, con una serie di importanti iniziative, sviluppatesi tra maggio e novembre, è stato ricordato il contributo Sannita alla Grande Guerra, non solo quello dei Caduti e dei reduci, ma anche quello delle loro compagne.

In particolare, nella conferenza storica dell’11 agosto 2018, onorata dell’intervento di illustri studiosi di fama nazionale, si è diffusamente parlato, tra l’altro, del Sacrificio dell’ “altra metà del Cielo”.

Queste poche, semplici righe, vogliono ricordare-rendendovi il giusto e doveroso omaggio-il grande, inestimabile, spesso misconosciuto coraggio delle Donne Italiane- e Sannite- nella Grande Guerra.

È la mattina del 4 novembre 1921.

Roma, Piazza Venezia.

Una donna, avvolta in gramaglie, spaurita, attonita, con gli occhi velati, volge lo sguardo intorno.

Ad un cenno, si dirige verso la scalinata dell’Altare della Patria, in silenzio, assorta.

Dietro di lei, il Re, Vittorio Emanuele III, la Regina Elena, il Presidente del Consiglio, il Maresciallo Armando Diaz, Duca della Vittoria, tutte le Autorità Nazionali, civili e militari.

Davanti, un Feretro, avvolto nel Tricolore e portato, a spalle, dai Decorati della Medaglia d’Oro al Valor Militare.

Lentamente, ma con composta fierezza, comincia a salire i gradini, fissando, ora, fermamente davanti a sé.

Mentre sale le rampe del Vittoriano, sembrano affollarsi idealmente, attorno a lei, tutte le donne che sono state al fianco dei loro compagni – e di tutti gli uomini – durante i durissimi, spietati anni della Grande Guerra.

Ma non era solamente dal primo conflitto mondiale che le donne avevano iniziato ad essere sempre più accanto ai Combattenti.

Già durante le Guerre del Risorgimento avevano affiancato gli uomini, impugnando, spesso, anche le armi.

Lo fecero le popolane romane, durante la disperata resistenza del 1849 alle truppe francesi, chiamate dal Papa.

Insieme a loro, lo fecero le donne milanesi e bresciane, nelle epiche ed eroiche giornate di lotta contro gli Austriaci.

Esempi fulgidi rimangono quelli di Anita, spirata tra le braccia di Garibaldi nelle paludi di Ravenna, dopo aver lottato, al suo fianco, a Roma, e della Madre dei Fratelli Cairoli, alla quale rimase solo un figlio, morendo, per l’Idea d’Italia, tutti gli altri.

Durante la Guerra di Libia, nel 1911-12, ebbero il primo impegno, al di fuori del Territorio Nazionale, le Infermiere Volontarie della Croce Rossa, che, sulla Nave Ospedale “Menfi”, assistettero i feriti che giungevano dalle battagie in Tripolitania.

Le Italiane parteciparono fervidamente anche al dibattito tra Interventisti e Neutralisti, schierandosi, con foga ancor maggiore dei maschi, da una parte o dall’altra.

Contro la guerra Anna Kulishov e Angelica Balabanoff, icone femminili del socialismo, l’attivista politica Argentina Bonetti Altobelli, la “firma” dell’alta moda dell’epoca Rosa Genoni, la “proto-femminista“ Abigaille Zanetta.

Sul fronte opposto, altre femministe: Teresa Labriola e Maria Mozzoni, la celebre giornalista Margherita Sarfatti e Anna Franchi, tra le prime sostenitrici del divorzio in Italia.

La Prima Guerra Mondiale vide complessivamente alle armi circa cinque milioni e mezzo di Italiani.

Per una Nazione che contava una popolazione assommante circa alla metà di quella odierna, questo significava un’enorme perdita di forza-lavoro nei campi, nelle fabbriche, nel commercio, nei servizi.

Furono le donne a supplire all’assenza dei loro compagni.

E lo fecero eccellentemente, spesso incredibilmente.

Nelle campagne, si posero dietro gli aratri e seppero affrontare, con inusitata forza, fisica e morale, anche i lavori più ardui ed onerosi, riuscendo a mantenere costante la produzione agricola, indispensabile per sostenere lo sforzo bellico.

È altamente significativa e suggestiva una fotografia dell’epoca, che ritrae tre donne, di età differenti ed una delle quali con un piccolo in grembo, che seguono una pariglia di buoi, solcando col vomere un campo.

Nelle fabbriche andarono a sostituire gli operai, distinguendosi, anche e soprattutto, nella produzione di materiali bellici.

Molte divennero talmente esperte nella confezione di armi ed ordigni, da essere assolutamente insostituibili per capacità ed ingegno.

Ma la sorpresa maggiore fu quella di vedere spazzine, barbiere, postine, tramviere, ferroviere.

A Milano, alle fermate del tram, quando sopraggiungeva una vettura condotta da una ragazza, molti si allontanavano preoccupati, temendo un imminente deragliamento: non accadde, invece, mai alcun incidente!

Per la prima volta, inoltre, si videro anche cancelliere nelle Preture ed impiegate negli uffici statali.

Difficile, per gli Ufficiali, al fronte, contenere l’entusiasmo, sprezzante di ogni pericolo, delle giornaliste, che pretendevano di scendere in trincea e di vivere l’attesa dell’assalto accanto ai fanti.

Barbara Allason, Annie Vivanti e Stefania Turr – quest’ultima figlia del Generale garibaldino ungherese Stefano – erano incontenibili: i loro reportage e le loro fotografie rimangono veramente straordinari.

Se non fosse stato loro impedito, non avrebbero esitato a lanciarsi all’attacco con i Soldati.

Furono le vere, prime antesignane di Oriana Fallaci!

Ma, forse, almeno nell’immagine collettiva, la partecipazione al conflitto delle donne si concretizzò soprattutto con le Infermiere Volontarie della Croce Rossa, per tutti le “Crocerossine”.

Dopo la “prova generale “ in Libia, si presentarono, in migliaia, ai corsi di formazione organizzati dalla Duchessa Elena d’Orleans-Aosta e da Sita Camperio Meyer.

La gran parte di esse, specialmente all’inizio, proveniva dalla nobiltà e dalla migliore borghesia.

Fino ad allora, il sangue lo avevano visto solo quando si era punte, per un maldestro utilizzo dell’ago, durante il ricamo, disciplina imposta a tutte le figlie della “buona società” del tempo.

Ciò che videro, soprattutto negli ospedali da campo, fu terribile ed indescrivibile.

Eppure, tutte seppero resistere, superando l’orrore e la paura.

Se il medico si occupava della ferita, loro si occupavano del ferito, dell’Essere Umano.

Col proseguire del conflitto giunsero, ad infoltire i ranghi, anche ragazze della piccola borghesia e del popolo.

La loro opera fu impagabile.

Il loro coraggio lasciò stupefatti i medici militari e gli stessi Comandi.

Seppero dimostrare la forza delle donne, anche e soprattutto dove e quando ce n’era più bisogno.

Affrontarono la prigionia accanto ai Soldati, la sofferenza vicino agli sfollati, il dolore con le Vedove, gli Orfani, le Madri che avevano perso i Figli.

Quando necessario, non esitarono neppure a prendere le armi, per difendere i feriti e le strutture sanitarie.

Lo fece Ina Battistella, a Udine, dove era rimasta per assistere i Soldati prigionieri: quando gli austriaci, ritirandosi, cominciarono a colpire l’Ospedale, raccolse il fucile ’91 di un militare ferito ed aprì il fuoco, combattendo con i Fanti, come e più dei Fanti.

A Marina di Massa, in Toscana, presso una sede del Corpo Militare della Croce Rossa, è visitabile un treno-ospedale, ancora intatto, così come era durante la Grande Guerra.

A bordo, manichini indossano le Uniformi del tempo e ci sono, naturalmente, le Crocerossine, con i medici ed i feriti.

Quel treno, peraltro, fu utilizzato, anni orsono, per girare alcune scene del celebre film “Il paziente inglese”, del regista Anthony Minghella.

È una visita che vale veramente la pena, perché consente di capacitarsi di quali, realmente, fossero le condizioni nelle quali si trovavano ad operare le ragazze con la bianca Uniforme.

Una di loro, Maria Kaiser Parodi, morta per aver contratto un male incurabile per rimanere accanto ai Soldati, è sepolta a Redipuglia, con le migliaia di Uomini falciati da quella guerra, a Simbolo imperituro del Sacrificio delle giovani “Bianche Dame”.

L’inderogabile esigenza di garantire l’assistenza sanitaria, per una struttura militare che aveva assunto dimensioni enormi ed inimmaginabili all’inizio delle ostilità, portò anche all’arruolamento, in ruoli sanitari ausiliari, ma con rango di Ufficiali, delle donne laureate in medicina: si tratta della prima esperienza di servizio militare femminile in Italia. Alcune, la tenente Corvini, per citarne una, furono anche decorate al Valor Militare.

Un’altra, Maria Predari, fu assegnata, come medico, ad un reparto di alpini.

Alla celebre campionessa di sci Emanuela Di Centa, che le parlava delle sue tante vittorie sportive e delle medaglie conquistate, la nonna, una semplice, ma forte donna di Carnia, mostrò la sua, dicendole: “ne ho una sola, ma non la cambierei con nulla al mondo”.

Era la Medaglia di Cavaliere di Vittorio Veneto, l’Onorificenza istituita, nel Cinquantenario, per i Reduci della Grande Guerra.

La nonna della Di Centa, come tante altre sue compagne carniche ed ampezzane, aveva risposto immediatamente alla richiesta dei Comandi Militari di occuparsi del trasporto di viveri, medicinali, abiti, munizioni ed anche di feriti e, purtroppo, dei Caduti, consentendo, così, di impiegare al combattimento i militari che avrebbero dovuto esservi destinati.

Erano, queste, tutte donne del popolo, montanare fiere ed orgogliose, molte analfabete, ma animate da coraggio e forza d’animo veramente eccezionali.

Caricavano, nelle gerle, fardelli anche di 40 chili, affrontando gli impervi sentieri per raggiungere le truppe, spesso prese di mira dai cecchini ed esposte al fuoco delle artiglierie.

Partivano da Timau, Cleulis, Sappada e dalle valli intorno a Cortina, a capo chino, sotto il peso del loro carico.

Giunte sulla linea del fronte, mangiavano con i Soldati e, talvolta, specialmente presso le Unità di artiglieria, li sostituivano per qualche tempo ai pezzi, per lasciarli riposare: vere e proprie “artigliere”!

Alcune furono ferite, anche gravemente, altre persero la vita.

Una di loro, Maria Plozner Mentil, madre di quattro figli, col marito al fronte, pur consapevole del rischio derivante da un cecchino austriaco, volle ugualmente compiere il suo compito: fu colpita e spirò tra le braccia degli alpini, accorsi a soccorrerla.

È sepolta in un cimitero di guerra, accanto ai Soldati, come un Soldato.

Una mattina d’autunno del 1915, una bella ragazza ventenne si presenta al valico di Santa Maria, tra il Tirolo austriaco ed i Grigioni svizzeri.

Sta lasciando Innsbruck, dove la gendarmeria è sulle sue tracce, per tornare in Italia, come le ha ordinato il Colonnello Tullio Marchetti, Capo dell’Ufficio Informazioni della Prima Armata.

Nella borsetta ci sono un revolver e le relative munizioni.

Nei bottoni del vestito, gli indirizzi dei suoi contatti.

Al Sottufficiale che le si avvicina per perquisirla, sorride maliziosamente, mentre, con disinvoltura, appoggia la borsetta sulla scrivania.

È un attimo: con celere destrezza, recupera la borsetta e, con due salti, mette piede in territorio elvetico, tra le guardie confinarie della Confederazione.

È salva.

Se fosse stata catturata, lei, cittadina asburgica di Arco, in Trentino, sarebbe finita impiccata come Cesare Battisti, come Nazario Sauro, Damiano Chiesa e Fabio Filzi.

Ne ha tanto di coraggio, Luisa Zeni, anche troppo!

Ma non è inconsapevole dei rischi che corre, li conosce bene, invece.

Però crede, fermamente, in qualcosa.

Vuole che la sua Terra, il suo amato Trentino, diventi finalmente Italiano.

È grazie al direttore della scuola che ha frequentato, cugino del Colonnello Marchetti, che entra nel Servizio Informazioni dell’Esercito.

Il contributo che saprà dare, nei primi mesi del conflitto, sarà di fondamentale importanza, riuscendo laddove le classiche fonti di allora – prigionieri, disertori, pattuglie – non erano riuscite e neppure l’osservazione aerea.

Conosce il tedesco, Luisa, e lo conosce tanto bene da spacciarsi per austriaca e far credere di aver lasciato l’Italia – ove si trovava – per disprezzo degli Italiani e del loro “tradimento”.

Le credono.

E lei invia informazioni fondamentali sull’entità, sui movimenti, sulla situazione operativa delle forze austriache, che si riveleranno preziose.

Dopo l’esperienza da “007 in gonnella”, Luisa sarà Infermiera Volontaria negli ospedali da campo, ove contrarrà la tisi, che la affliggerà per il resto della sua vita, conclusasi nel 1941.

Non si tirarono indietro neppure le attrici più famose, le “vamp” dell’epoca.

Senza farselo ripetere, risposero agli inviti dei Comandi per partecipare agli spettacoli, allestiti, per le truppe, anche a ridosso del fronte.

Lo fece la splendida Lyda Borrelli.

Lo fece una “sex symbol” degli Anni Dieci, Emma Gramatico.

È quella vecchietta che, nel film “Don Camillo monsignore”, degli Anni Sessanta, si china, davanti ad un pilone votivo che deve essere abbattuto, a pregare per il figlio, disperso in Russia.

Noi l’abbiamo conosciuta così, al crepuscolo della sua vita.

Ma i nostri nonni conobbero, invece, una donna bellissima, affascinante e seducente, che abbandonò i tranquilli teatri di rivista per andare nelle zone ove si combatteva, ad alleviare, almeno con un sorriso e per qualche ora, la sofferenza dei Combattenti.

Ricordate il film “La Grande Guerra”, con Gassmann e Sordi? Ricordate un coprotagonista, scomparso di recente, Tiberio Murgia, che impersona un soldato con la foto di Francesca Bertini in tasca?

Ebbene, anche lei, la bellissima Francesca, raggiunse le truppe per tenere i suoi spettacoli.

Sembrano cose marginali, ma non è affatto così per chi vede la morte in faccia, ogni giorno.

Dopo Caporetto, gli austriaci ed i tedeschi pensarono di “punire” quelli che, per loro, erano i “traditori” italiani, lasciando libertà, ai peggiori elementi del loro esercito, di infierire sulle povere popolazioni del Friuli occupato.

Chi ne fece le spese furono proprio e soprattutto le donne.

Non si contano gli stupri, le violenze, gli assassini efferati compiuti contro ragazze, madri ed anziane.

È una storia poco nota, anche perché, terminate le ostilità, fu proprio il pudore e la vergogna delle vittime stesse ad impedire che si potesse fare piena luce sull’accaduto.

Da quelle violenze nacquero – incolpevoli conseguenze – dei bambini.

Padri, mariti, fratelli, tornati alle loro case, li allontanarono immediatamente.

Furono accolti in orfanotrofi ove, di tanto in tanto, ricevevano le visite delle madri.

Gli ultimi di questi “figli dello stupro del Friuli”, sono scomparsi solamente pochi anni orsono.

Fu uno strazio ulteriore, protrattosi per molti anni e, spesso, per l’intera esistenza delle donne che lo vissero.

Maria Bergamas, Madre di un giovane triestino, corso ad arruolarsi nel nostro Esercito, Caduto nel suo Carso “selvaggio” ed il cui corpo non fu mai ritrovato, sale, ora, gli ultimi gradini del Vittoriano.

Fiera, composta, dignitosa e per nulla intimorita, ormai.

Davanti a lei, la bara, con i Resti di un Caduto sconosciuto, come suo figlio, vengono calati nel Sacello che ancora oggi li accoglie.

Lei, Maria, è la Madre del Milite Ignoto.

Non importa se quello sepolto, quel giorno di tanti anni fa, sia stato veramente il suo ragazzo.

Importa che lei lo abbia maternamente accompagnato, con la compostezza, l’orgoglio, la dignità di una Madre, di tutte le Madri Italiane che subirono la sua sorte.

Sono state tante, anche se il tempo sembra averne cancellato il Ricordo-ma non è vero –le Maria Bergamas Sannite, le Donne della nostra antica e nobile Terra, che hanno pianto mariti, padri, figli , fratelli, mai tornati dalla fornace del primo conflitto mondiale. Di Loro, sovente, non tornarono neppure i Resti mortali: sono tanti i Militi Ignoti delle valli e dei monti del Sannio.

I Loro Uomini seppero dimostrasi, ovunque, degni e fieri Eredi di quel Popolo Sannita che Silla, come scriveva  Tito Livio nel Nono Libro del suo “Ab Urbe condita”, riteneva gli unici capaci di insidiare davvero le ambizioni imperiali di Roma.

Le nostre Donne seppero dimostrare il Valore della nostra Gente, vivendo il dolore con la composta fierezza che ci distingue e continuando a porsi dietro l’aratro, magari con un figlio in grembo, per svolgere anche i lavori più faticosi degli uomini.

Alcuni mesi fa, su molti, importanti quotidiani, è comparsa, per lungo tempo, una pubblicità, a tutta pagina, ove un celebre “chef” mostrava, tenuta sulla mano, una fetta di gorgonzola.

Sotto, a caratteri cubitali, era riportata la scritta “orgoglio italiano”.

Orbene, il gorgonzola è senz’altro una prelibatezza.

Una squisitezza.

Un’eccellenza – come si dice oggi – della nostra gastronomia.

Ma – col permesso dei produttori e dell’illustre chef, loro “testimonial” – l’“orgoglio italiano” è un’altra cosa.

Orgoglio Italiano sono le donne che si posero dietro un aratro, ad un macchinario nelle fabbriche, ai lavori più semplici, umili e faticosi per sostituire gli uomini al fronte.

Orgoglio Italiano sono le donne del Friuli, vittime della bestialità degli invasori.

Orgoglio Italiano son le Madri che persero i figli nella Grande Guerra.

Orgoglio Italiano è, per tutte loro, Maria Bergamas che, impavida e fiera, sale all’Altare della Patria, Simbolo di tutte le Madri e di tutte le Donne Italiane!

Il grande compositoreaustriaco Gustav Mahler sosteneva che “la Memoria non è venerare le ceneri, ma custodire gelosamente il Fuoco”.

Ecco, ora sappiamo quale Fuoco dobbiamo, gelosamente, custodire!

Chi è il Gen. Antonio Zerrillo*

Antonio Zerrillo

Antonio ZERRILLO è nato nel 1957, vive ad ALBA (CN), è sposato ed ha un figlio.

E’ originario di REINO ( BN), ove si reca di frequente.

Generale di Brigata dell’Esercito, è in congedo dal 2018.

E’ Cittadino Onorario dei Comuni di DIANO D’ALBA (Cuneo) e di VERRUA SAVOIA ( Torino).

Ha svolto studi storici presso l’Università di TORINO, approfondendo, in particolare, il periodo tra il Risorgimento e la Seconda Guerra Mondiale.

Arruolato nel 1977, dopo la nomina a Sottotenente fu assegnato a COMO.

Trasferito  a TORINO nel 1983, ha  prestato servizio presso la Procura Militare della Repubblica, il Comando della Regione Militare Nord Ovest ed il Comando Militare Esercito Piemonte.

Tra i principali incarichi ricoperti figurano quelli di Comandante di Compagnia, Responsabile della Segreteria del Procuratore Militare, Comandante di Reparto a livello di battaglione, Capo Ufficio Affari Generali e Capo Ufficio Comunicazione dello Stato Maggiore della Regione Militare Nord.

Dal 2014 al 2018, in esecuzione delle direttive al riguardo impartite dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, è stato a capo del progetto per le Commemorazioni del Centenario della Grande Guerra in Piemonte.

E’ stato membro delle Conferenze Permanenti per le Commemorazioni   presso le Prefetture di TORINO, CUNEO, ASTI e BIELLA.

In tale veste ha pianificato, organizzato e realizzato, in collaborazione  con le Prefetture, le Provincie, le Dirigenze Scolastiche, le Associazioni d’Arma e molte Amministrazioni Comunali, una lunga serie di attività in tutto il Piemonte, che hanno riscosso grande partecipazione ed hanno avuto notevole riscontro sugli Organi di informazione.

In diverse occasioni, a TORINO ed in molte località del PIEMONTE, è stato relatore su argomenti relativi alla Prima Guerra Mondiale.

In concomitanza con il Centenario della conclusione del conflitto, nel corso del 2018, anche dopo aver lasciato il servizio attivo, ha continuato a collaborare all’ organizzazione dei relativi eventi in Piemonte ed anche in località della Lombardia e della Toscana.

In particolare, inoltre, presso il Comune d’origine, nell’Alto Sannio, ha contribuito fattivamente ad organizzare un’ articolata serie di eventi, sviluppatisi tra maggio e novembre del 2018, relativi alle celebrazioni del Centenario suddetto, che hanno riscosso grande attenzione mediatica a livello regionale e non solo.

Svolge attività di docenza, presso l’Università Tecnologica della Terza Età, in TORINO e presso l’Università della Terza Età di ALBA (CN) e di altre località della Provincia di CUNEO, su argomenti di carattere storico.

Sempre presso il paese sannita d’origine, ha recentemente promosso ed organizzato, anche qui con notevole ritorno d’immagine,  il conferimento della Cittadinanza Onoraria al Generale Massimo IADANZA – originario del posto – già Vice Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri.

Collabora, con scritti ed interventi, con il Centro Studi “Giovanni Giolitti” di CAVOUR (TO), diretto dallo storico di fama nazionale Aldo A. MOLA e con il Centro Studi e Ricerche “Nord Ovest” di IVREA (TO).

Per l’invio dei comunicati stampa al sito cliccare >>QUI<<