Pagine di Storia – Domenico, un sannita a Porta Pia

Contributo del Gen. Antonio Zerrillo* per La Voce del Sannio: “Auspico e spero, fervidamente, che la Memoria di Domenico e di tutti i Sanniti  e gli Italiani che resero possibile questa impresa sia degnamente onorata. A Roma e nel nostro Sannio“.

E’ notte.

Silenzio.

Sono in migliaia, eppure c’è un grande, assoluto silenzio.

Le mura della Città, pur così vicine, si intravedono appena, confuse col cielo nero.

La luna è già tramontata.

Fino a poche ore prima, i soldati s’erano stretti attorno ai falò, parlando, sommessamente, tra loro.

Poi, i fuochi erano stati spenti e le braci coperte di terra.

Nessuno parlava più. Ma nessuno dormiva. Volti tesi, lo sguardo avanti, verso quelle mura, ancora indistinguibili dalla notte scura.

Silenzio.

Domenico è accanto agli altri, col suo plotone, seduto per terra.

Anche lui guarda quelle mura, che iniziano dove finiscono le stelle.

Pensa.

Era di notte anche quel giorno, solo qualche anno prima, quando si ritrovò, nella piazza di Reino, il suo paese, tra le colline dell’Alto Sannio, con altri giovani come lui.

Poco dopo, alla luce di una lanterna, era arrivato il Sindaco, Francesco Autore.

Aveva fatto l’appello: c’erano tutti.

Si incamminarono, in quella notte senza luna, risalendo l’antico Regio Tratturo ove, negli stazzi, i pastori attendevano l’alba, per riprendere il cammino della Transumanza, verso il Molise ed i monti dell’Abruzzo, ove avrebbero trascorso l’estate nei verdi alpeggi della Maiella e del Gran Sasso.

Le greggi e le mandrie tacevano. Solo qualche piccolo movimento al passaggio del muto drappello.

Era primavera inoltrata, ma l’aria ancora fredda, pungente.

Il Sindaco in testa, loro dietro, in silenzio.

Silenzio. Come quella mattina, davanti alle mura della Città.

Avevano tanta strada davanti, fino al capoluogo di Mandamento, San Bartolomeo in Galdo.

Lì, Domenico e gli altri, avrebbero effettuato la visita di leva e, soprattutto, avrebbero “ estratto il numero”: più alto sarebbe stato e più breve la ferma sotto le Armi. Più basso, invece, più lunga – e chissà dove e come-  la lontananza da casa.

Così, allora, funzionava il reclutamento per il servizio militare.

Non potendo, in conseguenza degli organici dell’Esercito del tempo, arruolare tutti, si ricorreva a questo sistema, che lasciava alla sorte la decisione.

Era l‘applicazione della cosiddetta “Legge Lamarmora”, del 1854, estesa, dopo l’Unità, a tutta Italia.

La norma prevedeva la “Ferma d’Ordinanza”, di 8 anni, per i Carabinieri e per particolari categorie dell’Esercito e la “Ferma Provinciale” per tutti gli altri. Tale ultima “Ferma”, era di ben 11 anni- 5 di effettivo servizio e 6 a disposizione per eventuali richiami- per i giovani della prima categoria che avevano estratto il numero più basso. Pochi mesi di istruzione, invece, per quelli che avevano trovato, nel bussolotto, il numero più alto.

Certo, fino a pochi anni prima, le cose stavano diversamente.

Ai tempi di Re Ferdinando di Borbone e di suo figlio Francesco, ultimi Sovrani delle Due Sicilie, essere chiamati alle Armi era piuttosto raro: i reggimenti erano formati, perlopiù, da volontari, integrati da piccoli contingenti di coscritti, anche in questo caso, arruolati per estrazione a sorte.

Ben pochi, infatti, tra gli amici più vecchi di Domenico, erano effettivamente partiti.

Poi, tutto era cambiato.

L’antico Regno borbonico era stato travolto dalla Storia e la nuova Patria, l’Italia, la cui Bandiera Tricolore sventolava al balcone del Municipio, ordinava a tutti di rispondere alla chiamata, seppur con tempi e modalità diverse.

I Sindaci dovevano accompagnare i giovani nei capoluoghi di Mandamento- antiche circoscrizioni, abolite nel 1926, all’interno delle province- ove avveniva la visita e si decideva il destino delle prossime reclute.

Solamente pochi anni prima, nel 1861, il Sindaco di allora, Nicola De Nunzio, proprio mentre rientrava, dopo aver accompagnato i coscritti a San Bartolomeo, era stato catturato ed ucciso, dai briganti di “Pilorusso”, al Toppo delle Felci, nelle campagne tra Baselice, Castelvetere, Colle Sannita e San  Marco dei Cavoti.

Era stato poi decapitato e la testa gettata davanti al vecchio cimitero.

Una storia orrenda.

Quando toccò a Domenico, il rischio di imbattersi in una simile situazione c’era ancora, benché assai più remoto.

Finalmente la luce del sole aveva invaso i boschi e le valli dell’Appennino e, dopo molte ore di cammino, erano arrivati a destinazione.

Domenico non fu fortunato: estrasse un numero molto basso. Gli sarebbero toccati almeno cinque anni di ferma, oltre- forse- ad alcuni altri, in considerazione dei probabili richiami.

Tornò a Reino triste, infastidito dalla gioia di coloro che avrebbero, invece, prestato servizio per pochi mesi.

Poi era partito, assegnato al 41° reggimento di fanteria, in Emilia.

Un viaggio, dapprima a piedi e poi, per quasi un giorno intero, in treno, in terza classe.

Era stata molto dura, all’inizio e per parecchio tempo.

Il suo piccolo paese lontano, come i genitori ed i fratelli.

Solo qualche lettera, di tanto in tanto.

I commilitoni venivano da altre regioni, parlavano dialetti che non capiva.

Quello di far incontrare, sotto le Armi, giovani di diversa e lontana provenienza, era uno dei modi per tentare di cementare la recentissima Unità Nazionale.

Aveva appreso, a sue spese, la Disciplina Militare, buscandosi anche qualche giorno di punizione.

Si era poi inserito nella nuova realtà ed era anche tornato a casa, in licenza, qualche volta.

Ogni rientro in caserma era difficile: separarsi dai suoi era sempre doloroso, ma un giorno sarebbe tornato- diceva allontanandosi- ed avrebbe ripreso la sua vita, con loro.

Una mattina, erano i primi di settembre del 1870 e da quasi due anni vestiva l’Uniforme, dopo l’adunata e l’Alzabandiera del mattino,  ricevettero l’ordine di prepararsi: il suo reggimento  sarebbe stato impiegato in un’ importante operazione, anche se non gli fu detto dove.

Partirono due giorni appresso, al primo chiarore dell’alba.

Dapprima in treno, poi in marcia.

Dai monti della Sabina, presso Rieti, scesero lungo le valli del Velino e del Farfa e, poi, lungo quella del Tevere.

Il Tevere! Eppure lo sapeva che quello era il fiume di Roma.

Lo sapeva che il Papa, Pio IX- il cui nome invocava il Parroco, durante la Messa, in paese- stava a Roma e che la Basilica di San Pietro sorgeva proprio presso le sponde del Tevere.

Il 13 settembre arrivarono a Rignano e la occuparono.

Dei soldati del Papa, a parte qualche scaramuccia alla quale non aveva personalmente partecipato, nessuna traccia.

Nei giorni successivi, proseguirono.

“A Roma. Stiamo andando a Roma”, pensarono Domenico ed i suoi compagni.

Poi, il 16, erano giunti sotto quelle mura e lì si erano fermati.

Erano in tanti, quasi cinquantamila.

Molti, anche i pezzi di artiglieria schierati.

Durante uno spostamento, aveva notato che i cannoni venivano portati avanti e che il suo reparto- proprio il suo- insieme ad un altro di bersaglieri, veniva rischierato molto vicino ad una delle porte della Città.

Domenico aveva compreso che, insieme a quei bersaglieri, presto- molto presto- sarebbe toccato a lui ed ai suoi compagni d’arme.

Dopo il rancio della sera precedente, era calata la notte. Si erano rapidamente spente le ultime voci e, poi, il silenzio.

Quel silenzio che durava, ormai, da ore.

Domenico pensava al suo paese: ora, con l’autunno appena iniziato, si vendemmiava nelle piccole vigne a Campomaggiore, a Salera, a Fontana della Spina.

Le gialle, squisite e gustosissime prugne settembrine facevano capolino tra il fogliame, non ancora ingiallito.

Le greggi e gli armenti, coi loro pastori, scendevano dall’Abruzzo verso il mare, percorrendo, questa volta a ritroso, l’antico Tratturo, sul quale Domenico aveva camminato, qualche anno prima, quando, col Sindaco, era andato a San Bartolomeo.

Era immerso in quei pensieri quando udì, improvvisamente, uno squillo di tromba, al quale ne seguirono altri.

Tutti si alzarono, muti.

Questa volta, il silenzio era gravido di trepida attesa.

Un boato, un fragore terribile: la fiammata esce, improvvisa, da una bocca da fuoco. Subito dopo, anche dagli altri cannoni partono colpi in direzione delle mura.

Sono le cinque del mattino del 20 settembre 1870.

La 5^ batteria del 9° reggimento di artiglieria- comandata dal giovane Capitano Giacomo Segre, ebreo e, come tale, immune dalla scomunica che Pio IX ha minacciato a chiunque avesse osato aprire il fuoco su Roma- è ormai in azione.

I colpi si susseguono con rapida frequenza.

I bersaglieri del 34° battaglione ed i fanti del 2° battaglione del 41° reggimento di fanteria- tra i quali Domenico- sono fermi, armi in pugno, in attesa.

Le vermiglie luci dell’aurora incorniciano le mura che, adesso, sono ben distinguibili.

Le bordate proseguono, ininterrottamente.

Domenico osserva, tra l’enorme coltre di fumo, che una parte di quelle mura sta crollando e, per terra, si stanno ammucchiando le loro macerie.

Ormai il sole è alto, quando, poco prima elle nove, l’artiglieria cessa la sua monotona musica.

Tra i bersaglieri ed i fanti, calano- secchi, perentori, inesorabili- gli ordini degli Ufficiali.

Poi, ancora una volta, il silenzio.

Il polverone sollevato dal bombardamento è enorme ma, adesso, sta finalmente diradandosi.

Tra le mura, accanto a quell’antica porta che aveva visto la sera prima, ora s’è aperto un varco, una breccia.

Domenico, vicino agli altri, stringe nervosamente il fucile.

“ Baionetta!”, urlano gli Ufficiali.

Immediatamente, infila la baionetta sulla canna del fucile.

La mente si affolla di pensieri, l’uno sull’altro: scorrono immagini, ricordi, tutto in fretta, velocemente.

Improvvisamente, una sciabola balena nel sole del mattino.

“Savoia!”, grida il Comandante.

“Savoia!”, ripetono gli Ufficiali.

Il Tricolore compare, d’improvviso, in testa al battaglione.

Domenico non se n’è neppure accorto, ma sta camminando, sempre più  rapidamente, col fucile spianato, verso quel varco, quella breccia ancora fumante.

I bersaglieri, poco oltre, stanno correndo, gridando per farsi coraggio.

Il tempo di vederli ed è già sulla breccia.

Sparano, i soldati del Papa.

Sparano gli Zuavi, i Cacciatori, i Dragoni ed i Gendarmi Pontifici.

Sparano contro i fanti ed i bersaglieri anche gli Squadriglieri, volontari accorsi dalla Ciociaria per difendere l’ultimo ridotto del Papa-Re.

I bersaglieri si lanciano, correndo, oltre quel buco nelle mura.

Accanto a loro, Domenico ed i fanti del suo battaglione.

La Bandiera ondeggia proprio non appena superato il varco: l’Alfiere sta per cadere, ma lo sorregge un soldato.

Un commilitone cade, sanguinante, a terra. Domenico si china per soccorrerlo, ma il Sergente lo spinge avanti: ci penseranno quelli della Sanità.

Urla, spari, confusione.

Sangue.

La breccia è, ormai, alle spalle. Domenico avanza col fucile spianato ed il cuore in tumulto.

Non sa neppure se è ferito, se il sangue che vede è suo o di qualcun altro.

I Pontifici intensificano il fuoco.

“Stavolta è finita”, pensa Domenico.

Invece, dopo un’ ultima sfuriata, non sparano più. Neanche un colpo.

Ora, i soldati italiani avanzano lungo le vie della Città Eterna.

Domenico si guarda attorno: la gente s’affolla.

Qualcuno grida “Viva l’Italia!”.

Qua e là, sui tetti, spuntano i Tricolori.

“Roma!”, pensa Domenico.

I suoi occhi sono pieni di stupore e di meraviglia.

Adesso, il suo cuore è colmo d’orgoglio.

E’ un uomo semplice, ma comprende che, quel giorno,  ha contribuito, anche lui, a scrivere una pagina di Storia. Quella con la Maiuscola!

Il Generale Von Kanzler, Comandante delle truppe pontificie, dopo la simbolica resistenza- costata, comunque, 43 morti e 132 feriti tra gli Italiani, 20 morti e 49 feriti tra i Papalini- si è arreso.

I soldati di Pio IX, dopo la Benedizione solenne in Piazza San Pietro, tornano alle loro case.

Hanno combattuto una battaglia, persa in partenza, con coraggio, ed abnegazione: meritano Onore e rispetto.

Adesso, però, è finita.Comincia, anche per loro, un tempo nuovo.

Domenico, con i suoi, raggiunge Piazza Navona: gli occhi lucidi, il cuore  batte forte.

Dopo alcuni giorni, rientra in Emilia, col suo reparto.

Alcuni anni dopo, tornerà, finalmente, a Reino, ove si sposerà con Maria Rosa ed avrà sette figli, tra i quali Incoronata.

Mia nonna paterna.

Si, Domenico Verzino, nato nel 1847 e morto nel 1903, era mio bisnonno.

Ne ho raccontato la storia, ricucendo ricordi lontani, giunti, tramite mia nonna, a mio padre ed a mio zio, non certamente per bolsa, stucchevole,  vanagloria di famiglia.

L’ho raccontata perché la conosco, perché l’ho sentita ripetere, anche di recente, dall’ultimo discendente ancora in vita, della mia famiglia, che la udì, personalmente, dalla figlia di Domenico, Incoronata.

Sicuramente, quel giorno di primo autunno, sotto le mura di Roma, insieme a Domenico Verzino, c’erano altri Sanniti che, come lui, conservarono sempre, gelosamente e con grande orgoglio, il ricordo di un’impresa indimenticabile.

Tito Livio, nel nono Libro della sua opera “Ab Urbe condita”, racconta che Silla- ferale nemico dei Sanniti, che riteneva gli unici in grado di insidiare davvero le ambizioni imperiali di Roma – non riuscisse neppure a prendere sonno, pensando che anche un solo guerriero Sannita si aggirasse ancora, pronto a combattere, tra le valli, i monti ed i boschi del Sannio.

Quel giorno di settembre del 1870, Domenico e gli altri soldati della nostra fiera, antica e nobile Terra, dimostrarono anche a Silla, duemila anni dopo, l’indomita grandezza del nostro Popolo, restituendo, proprio a Roma la libertà e la sua Storia di Madre della Civiltà.

Quella di Porta Pia non fu, dal punto di vista militare, una battaglia epica.

Ma, quel giorno, Domenico e gli altri restituirono Roma all’Italia e l’Italia a Roma dopo quattordici secoli di separazione e di dominazione straniera.

L’anno prossimo, 2020, cadrà il centocinquantesimo anniversario di quell’evento.

Auspico e spero, fervidamente, che la Memoria di Domenico e di tutti i Sanniti  e gli Italiani che la resero possibile, sia degnamente onorata.

A Roma e nel nostro Sannio.

BIBLIOGRAFIA

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Alfonso MEOMARTINI: “I Comuni della Provincia di Benevento” , Ed. Gennaro Ricolo, Benevento, 1985;

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Chi è il Gen. Antonio Zerrillo*

Antonio Zerrillo

Antonio ZERRILLO è nato nel 1957, vive ad ALBA (CN), è sposato ed ha un figlio.

E’ originario di REINO ( BN), ove si reca di frequente.

Generale di Brigata dell’Esercito, è in congedo dal 2018.

E’ Cittadino Onorario dei Comuni di DIANO D’ALBA (Cuneo) e di VERRUA SAVOIA ( Torino).

Ha svolto studi storici presso l’Università di TORINO, approfondendo, in particolare, il periodo tra il Risorgimento e la Seconda Guerra Mondiale.

Arruolato nel 1977, dopo la nomina a Sottotenente fu assegnato a COMO.

Trasferito  a TORINO nel 1983, ha  prestato servizio presso la Procura Militare della Repubblica, il Comando della Regione Militare Nord Ovest ed il Comando Militare Esercito Piemonte.

Tra i principali incarichi ricoperti figurano quelli di Comandante di Compagnia, Responsabile della Segreteria del Procuratore Militare, Comandante di Reparto a livello di battaglione, Capo Ufficio Affari Generali e Capo Ufficio Comunicazione dello Stato Maggiore della Regione Militare Nord.

Dal 2014 al 2018, in esecuzione delle direttive al riguardo impartite dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, è stato a capo del progetto per le Commemorazioni del Centenario della Grande Guerra in Piemonte.

E’ stato membro delle Conferenze Permanenti per le Commemorazioni   presso le Prefetture di TORINO, CUNEO, ASTI e BIELLA.

In tale veste ha pianificato, organizzato e realizzato, in collaborazione  con le Prefetture, le Provincie, le Dirigenze Scolastiche, le Associazioni d’Arma e molte Amministrazioni Comunali, una lunga serie di attività in tutto il Piemonte, che hanno riscosso grande partecipazione ed hanno avuto notevole riscontro sugli Organi di informazione.

In diverse occasioni, a TORINO ed in molte località del PIEMONTE, è stato relatore su argomenti relativi alla Prima Guerra Mondiale.

In concomitanza con il Centenario della conclusione del conflitto, nel corso del 2018, anche dopo aver lasciato il servizio attivo, ha continuato a collaborare all’ organizzazione dei relativi eventi in Piemonte ed anche in località della Lombardia e della Toscana.

In particolare, inoltre, presso il Comune d’origine, nell’Alto Sannio, ha contribuito fattivamente ad organizzare un’ articolata serie di eventi, sviluppatisi tra maggio e novembre del 2018, relativi alle celebrazioni del Centenario suddetto, che hanno riscosso grande attenzione mediatica a livello regionale e non solo.

Svolge attività di docenza, presso l’Università Tecnologica della Terza Età, in TORINO e presso l’Università della Terza Età di ALBA (CN) e di altre località della Provincia di CUNEO, su argomenti di carattere storico.

Sempre presso il paese sannita d’origine, ha recentemente promosso ed organizzato, anche qui con notevole ritorno d’immagine,  il conferimento della Cittadinanza Onoraria al Generale Massimo IADANZA – originario del posto – già Vice Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri.

Collabora, con scritti ed interventi, con il Centro Studi “Giovanni Giolitti” di CAVOUR (TO), diretto dallo storico di fama nazionale Aldo A. MOLA e con il Centro Studi e Ricerche “Nord Ovest” di IVREA (TO).

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